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La rapa d’oro

L’avventura delle castagne cominciava quando i temporali di fine estate lasciavano a terra i rami più fragili, appesantiti da grappoli di ricci di un verde chiaro incredibile, le lunghe foglie ancora attaccate. Quei ricci caduti prematuramente, ancora morbidi al tatto, avevano del meraviglioso ai nostri occhi ma ai primi freddi, ingialliti e legnosi, cominciavano a cadere spontaneamente e ad aprirsi, lasciando libero il tesoro fin lì difeso con le spine. Andando a scuola a piedi, lungo la strada ne trovavamo sempre di più e riempivamo le tasche di quei frutti così lustri di un marrone puro, intonso. Quanto buone erano le prime caldarroste! In tempo di castagne, parlare di rape non è facile. Sagre della castagna si accavallano ovunque con degustazioni e dimostrazioni.

Ove c’è fumo c’è caldarrosta, si può dire in queste settimane e il profumo è irresistibile già nel pensiero. Vuoi mettere con l’odore della rapa estratta dal tino in cui viene conservata? Se la famiglia è indecisa sulla meta della scampagnata autunnale, scommetto trenta a uno che sceglierà una castagnata, piuttosto che un incontro sulla coltivazione e conservazione della pur nobile radice. Povera rapa, anche lei mi riporta alla prima infanzia e le rape di allora le ricordo enormi. Probabilmente, erano le mie mani ad essere piccoline. Dovendone portare due dal campo alla cassetta che aspettava sulla strada, tutta orgogliosa ne acchiappai una per mano prendendole per le foglie e mi incamminai per il ripido sentiero. Ma, già in vista della meta, la rapa a valle si staccò e, nello scatto per riprenderla al volo, persi anche quella a monte e vidi entrambe ruzzolare senza ostacoli e rimbalzare per i campi ben rasati, disperatamente a picco, fino in fondo, fin dove si vedeva e oltre ancora, fra i cespugli del lontano sottobosco. Passare così in fretta dall’orgoglio all’umiliazione! Reagii di conseguenza : piansi come una fontana. Sennonché, pochi passi prima di arrivare alla strada, larga e pianeggiante, la rapa a valle si staccò e, nello scatto per riprenderla al volo, persi anche quella a monte e vidi entrambe ruzzolare senza ostacoli e rimbalzare per i campi ben rasati,

disperatamente a picco, fino in fondo, fin dove si vedeva e oltre ancora, fra i cespugli del lontano sottobosco. Rimasi sconcertata : passare così in fretta dall’orgoglio all’umiliazione! Reagii di conseguenza : piansi come una fontana. Poi imparai anche i detti: “testa di rapa”, “inutile cavar sangue dalle rape” e “sapore di rapa”. Se a un maestro poco sensibile capitava di apostrofare un alunno con “testa di rapa”, era chiaro che non era un complimento e il resto della classe completava la demolizione del compagno appena fuori dall’aula. Sono cose che lasciano il segno. Per non parlare dell’immagine cruenta del cavar sangue, in contrapposizione con la polpa, davvero esangue, dell’ortaggio in questione. Già da fuori, tutta bianca con sfumature violacee, puoi capire che di sangue lì non ce n’è. Forse il detto è legato alla rapa rossa e al facile gioco basato sul colore del succo che può essere scambiato per quel che non è e non sarà mai. Comunque sia, la riabilitazione della rapa mi sembrava impossibile. E “ben gli sta”, pensavo, ricordando sempre le rape rotolanti. Invece anni dopo, in una delle indimenticabili estati dell’adolescenza trascorse a Oznebrida (Drenchia), noi ragazzi del paese eleggemmo a luogo d’incontro il cucuzzolo di una bassa collinetta dove convergevano, come verso il centro di un ombrello aperto, gli spicchi terminali dei vari campicelli e di qualche prato già falciato. Si sa che la parte in alto dei campi, in montagna, è piuttosto sterile perché le piogge portano a valle la terra lasciando in alto il pietrisco. Ebbene, in uno di questi campi crescevano le rape, già vicine al traguardo. Ma in cima, dove noi ci riunivamo, le rape erano ancora piccole e striminzite e mai avrebbero raggiunto la piena maturazione. Sradicarne una non ci pareva un gran danno ma, come le ciliegie, una tirava l’altra e, dai oggi e dai domani, ce le mangiammo tutte, quelle piccoline. Provate a prendere una piccola rapa tenendola con una mano per le foglie, afferrate con l’altra mano la radice a peduncolo e rigiratela come fosse il manico in un vecchio macinino da caffè. La buccia della radice si fessurerà per il lungo e a quel punto la rapa si potrà sbucciare come una banana, dalla radice verso le foglie. Resta così in mano una specie di fiore con al centro la rapa pulita, immacolata, pronta da mordere, sugosa e squisita, dolce e piccante quel giusto, come una mela al peperoncino. Ebbene, di queste manovre diventammo molto esperti durante quelle sessioni di chiacchiere all’imbrunire. Era come stazionare davanti al bar alla moda e servirsi di uno stuzzichino ogni tanto. Vita beata! Non poteva certo durare. La padrona del campo se ne accorse, infatti, e ne fece una tragedia d’altri tempi. Incurante del fatto che si trattasse di rapette stente e disidratate, misurò il terreno devastato, moltiplicò per il prodotto al top e presentò il mostruoso conto. Ai nostri genitori! Lascio immaginare il resto. Oggigiorno la rapa dovrebbe essere portata in palmo di mano, povera com’è di calorie. Da noi, anche se non per motivi dietetici, è così da sempre, largamente coltivata e giustamente apprezzata e valorizzata. La rapa migliore, però, predilige i climi freddi e quindi il Nord e la montagna. Rapa d’oro, la chiamano, la rapa ancora oggi coltivata nei ripidi campi di Drenchia dai pochi temerari rimasti. La seminano in estate e la accudiscono fino alla maturazione e al raccolto, a fine ottobre.

Dopo la semina, la terra viene ricoperta di uno strato di cenere, sia ad evitare che gli uccellini mangino i semi, sia per rendere la superficie più morbida e perforabile alla nuova piantina. Altrimenti, col rastrello a denti metallici si smuove lo strato superficiale del terreno perché non sia di ostacolo alla germinazione. Appena nate, le piantine vengono diradate e quelle estirpate non si buttano via! Lessate con le patate, passate e condite con croccante lardo soffritto – ocvierki, in sloveno – e una punta di aceto, sono una squisitezza dal nome “štakanje”, provare per credere! Poi occorre tenerle libere dalle piante infestanti, con interventi ripetuti. Se la stagione è arida, occorre anche annaffiare e solo chi coltiva in montagna, senza rogge, senza impianti, sa quanta fatica questo comporti. Però, le rape maturano in fretta e si conservano a lungo ; questo le rese adatte, come le patate, a costituire nei tempi passati una importante scorta di cibo per le stagioni in cui non maturava nulla. In più, impararono a conservarle nei tini e a farne uno dei cibi più usati e caratteristici della nostra terra. C’è chi le conserva intere, a strati inframmezzati a vinaccia fermentata e foglie di cavolo, il tutto coperto d’acqua leggermente salata. Altri usano solo foglie di cavolo a fissare gli strati ; altri ancora né foglie né vinaccia. Dopo un paio di mesi, quando sono acide al punto giusto, le sbucciano e le grattugiano a fettucce sottili per farne particolari contorni o minestre tradizionali dal sapore unico. C’è chi invece le grattugia prima ancora di metterle a macerare nei tini e chi alle rape aggiunge il cavolo cappuccio tagliato a striscioline. Sentir discutere di conservazione della rapa è come riaccendere la discussione sull’uovo e la gallina : ognuno ha la sua soluzione e con questa è pronto a sfidare qualsiasi palato. Signori, questa è brovada! Ma sono squisite anche cotte sotto la cenere, le avete mai provate? Ideale per questa cottura era la stufa di mattoni su cui cuoceva il pastone per i maiali, dove lo spazio per il fuoco era ben più grande che nella stufa comune e di rape ce ne stavano di più sotto tutta quella cenere ardente. Una volta cotte avevano un aspetto poco invitante, annerite e bruciacchiate, ma sbucciate tornavano candide e avevano il sapore di un dessert. Il tempo ne ha ingrandito il ricordo e reso il sapore perduto per sempre. Dove sono le rape d’un tempo? Si chiederebbe qualcuno. Proviamo a cercarle a Drenchia, verso la fine di ottobre, quando ci racconteranno come si produce e conserva la nostra rapa d’oro, come si cucina e come si consuma.