Salta al Menù principale Salta al contenuto principale

Gubanca, quella vera

… L’impasto di farina, uova, zucchero, lievito, olio o burro, era già cominciato alle prime ore del mattino e lievitava al caldo, in cucina, dove il profumo della buccia di limone si mescolava a quello della grappa e delle spezie del ripieno.

Appena ti intrufolavi venivi investito da: “Non tenere la porta aperta, ché non deve esserci corrente!” poi “naj tikat!!” e infine “fuori dai piedi!” e occorreva farsi ancora più piccoli perché, prese dai preparativi, non si accorgessero che c’eri anche tu; potevi allora allungare la mano e “rubacchiare” una manciatina di uvetta, una unta e scura polpettina di gubančanje, o toccare quel meraviglioso impasto giallo, gonfio, dolce e profumato.

Completata la lievitazione, l’impasto veniva suddiviso con dei tagli e ogni pezzo veniva spianato, sul ripiano capovolto della madia, fra svolazzi di farina: prima con le mani, poi col matterello, fino a farne un tondo approssimato di pochi millimetri. …

Il ripieno veniva distribuito sull’impasto badando a non invadere i bordi, veniva spolverizzato con lo zucchero e qualche fiocchetto di burro qua e là e poi si poteva procedere all’avvolgimento.

Le dita si muovevano con maestria, seguendo a memoria lo spartito tramandato e, ad un tempo, sollevavano un po’ la pasta, l’arrotolavano sul ripieno senza smuoverlo e senza premere; con gesti veloci rimettevano al centro qualche uvetta, un pinolo ribelle, ripianavano qualche ammasso o riempivano qualche lacuna, sempre procedendo col rotolo che avanzava morbido e compatto fino alla fine.

Una sapiente pressione sui bordi per sigillarlo e poi il rotolo veniva “arrotolato” su se stesso, partendo da un estremo, come una piatta spirale, con la parte finale rincalzata un po’.

La gubanca era fatta e, con gesti delicati, veniva sollevata a due mani come un neonato, e adagiata su un pezzo di carta imburrato, per la lievitazione finale sotto un telo pulito.