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Cvercja

Elogio della cvercja

Chi vive lontano e torna nelle Valli a trascorrere una vacanza, spesso si porta dietro qualche amico prediletto cui si possano mostrare, senza nulla temere, anche le proprie origini.

Tutti apprezzano la natura, la pace, l’affiatamento immediato con i paesani e si lasciano coinvolgere volentieri in qualsiasi attività locale, delle poche rimaste: dal cercar funghi o raccogliere susine, al cucinare secondo tradizione.

Ma vorrebbero assaggiare qualcosa di veramente diverso, disposti ad assimilare sapori sconosciuti o abbinamenti temerari pur di portarsi a casa, se non una ricetta da ripetere, almeno un aneddoto culinario da riferire ad altri amici, come un trofeo.

E va bene, se capitano anche a voi, fateli morire. Proponete loro di assaggiare la cvercja, (leggi: tzvértzia). Anzi, meglio ancora, la cvercja col lustrih. E se ne avete, mettete anche la mederjauka.

E, perché no, gli ozeberli. Così il pranzo diventerà anche occasione per una passeggiata verso l’orto e per un giro per prati alla ricerca del necessario. Strada facendo non fatevi sommergere dalle domande sul come si fa e che erbe sono, sarebbe fatica inutile.

Mostrerete in pratica quanto denso deve essere l’impasto, più utile che descriverne la consistenza. Allo stesso modo, individuare le piantine in mezzo all’erba e farle riconoscere è più efficace della più dettagliata delle descrizioni. Tornerete a casa mezzi stanchi, il naso arrossato dal sole, che non sembrava, e in una mano l’immancabile bastone, anche se avrete passeggiato su un ciglio asfaltato, e nell’altra il mazzolino già un po’ moscio degli odori. Verrebbe da sedere all’ombra a riposare ma stomaco e orologio sconsigliano indugi. L’impasto di uova, farina e acqua, con sale quanto basta, è presto fatto e le verdurine, lavate e asciugate nello strofinaccio, finiscono grossolanamente spezzettate dentro. Quando l’olio nella capace padella sta per fumare, quello è il momento di versarvi l’impasto e lasciare che si consolidi un po’ prima di cominciare a rigirarlo. Il buon odore di cvercja si espanderà immediato e le erbe esaleranno un profumo inconfondibile, molto intenso, dal presagio amarognolo e quindi -penseranno gli ospiti, inneggiando alla innata saggezza contadina- sicuramente digestivo, probabilmente medicinale e forse anche depurativo. Intanto la nostra cvercja avrà assunto il caratteristico aspetto trasandato di una massa che si frantuma in forme casuali e a vari gradi di cottura. Pezzi grossi dorati da un lato e semicrudi dall’altro e briciole abbrustolite, sul punto di carbonizzare. Ma questa, noi lo sappiamo, è una peculiarità. Sarà poi l’esperienza a tavola a far preferire i pezzi grossi dalla cottura irregolare o il briciolume ben tostato che si deposita sul fondo. A legare il tutto sarà il sapore inconfondibile e indimenticabile del lustrih o quello “crisantemoso” della mederjauka, o l’aroma dei teneri germogli di ozeberli. Mentre noi masticheremo lentamente ogni boccone per far uscire dall’amalgama quel sapore unico che, chiudendo gli occhi, ci catapulta indietro di decenni, perché è rimasto immutato, i nostri commensali passeranno qualche momento di imbarazzo nel decifrare i sapori, la consistenza, la disomogeneità dei pezzettini e, prima di capire che va masticata per bene e insalivata a dovere, deglutiranno a secco strabuzzando gli occhi o ricorreranno al bicchiere per mandar giù ogni boccone.

Impareranno anche loro, o no, ad amarla? Questo è cibo da meditazione, a lenta ingestione dopo meditabonda e gustosa masticata. Era semplice cibo contadino e tale è rimasto, povero quanto basta a far sentire degli asceti e saturo d’erbe al punto da assecondare anche la nostalgia del ritorno alla natura.

Ingr.: Germogli di ozeberli, cimette di mederjauka e tenere foglie di lustrih in morbida, molle e delicata pasta all’uovo rimestata al calor medio in velo d’olio con remar di gomito.