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In omaggio ai nostri reduci

Il dramma degli Alpini prigionieri in Russia

Sono morti di freddo, di fame, di malattie conseguenti, di trascuratezza, disorganizzazione e indifferenza. Come mosche, sono morti, quei ragazzi mandati sul fronte russo e mai più tornati.

Non preda e consenzienti ostaggi, a guerra conclusa, di floride fanciulle sole nelle izbe del Don, né vittime di tutt’altre sirene, impegnate a convertire al comunismo l’invasore fascista. Ma neppure trattenuti ad oltranza nei lager siberiani, come la propaganda nostrana ha cercato di far credere.

Quella guerra, scellerata come tutte, è stata tanto dura che cadere prigioniero poteva sembrare la fine di un incubo e invece ne cominciava un altro peggiore: un girone infernale in cui espiare la colpa di essere un soldato.

Sopravvissuti agli assalti nonostante l’equipaggiamento inadeguato, sfiniti dall’estenuante vita del fronte e dal gelo invernale che intaccava la carne, vestiti ormai di stracci, i soldati caduti prigionieri e lasciati in vita – tanti vennero trucidati subito – venivano costretti a interminabili marce di trasferimento da un posto all’altro, ammassati a dormire all’addiaccio con un freddo indescrivibile e nessuna pietà per chi restava indietro senza più forze. Oppure ammassati e compressi a bastonate in tradotte ferroviarie che attraversavano senza alcuna premura le enormi distese russe, in piedi per giorni e giorni in condizioni disumane, vagoni aperti ogni tanto solo per scaricare i morti. Per poi essere internati in campi più simili a recinti per bestiame che a ricovero e riparo per gente stremata, affamata, malata. Le epidemie di tifo ed altri malanni si accanirono sui sopravvissuti e ne fecero strage per mesi. Morivano a migliaia.

Chi non era malato veniva adibito al lavoro duro e rifocillato con un tozzo di pane e qualche brodaglia subito fredda e non sempre. Agli stenti e alla fatica si aggiungeva anche la cocente e ricorrente delusione del rimpatrio negato, senza un perché, anche a guerra finita da un pezzo.

“Pesavo ventisette chili” ha detto un reduce di quei campi, un omone ancora oggi e alle soglie dei novanta!

Se qualcuno, nonostante il titolo della conferenza, si aspettava resoconti straordinari di strategie, battaglie, eroismi e medaglie, è rimasto probabilmente deluso da una narrazione documentata, lineare e pacata delle tremende miserie umane che la guerra porta sempre – sempre – con sé. Per quelli proprio, rimasti alla fine senza parole e senza domande, una considerazione si impone: se morire in battaglia può dare un senso alla morte o al dolore di chi resta, morire di freddo, di incuria, di fame e altri patimenti, lascia un senso di attonito smarrimento e rivela ancora di più l’assurdità delle guerre. Chi non è morto in combattimento ed è finito, come tanti dei nostri alpini, prigioniero nei campi sovietici, ha conosciuto e, a volte, varcato il limite che distingue un uomo da un animale: la capacità e la forza della ragione cancellate dalla necessità primordiale di sopravvivere a qualsiasi cosa, ad ogni costo.

Impensabile tirare le somme di quegli eventi in poche righe ma parlare dei reduci o dei dispersi, oltre a significare che non li abbiamo persi di vista, che sappiamo almeno una piccola parte di quel che hanno passato nel fior degli anni loro, dovrebbe far meditare sulle finalità delle guerre e sulle loro conseguenze. E’ sotto gli occhi di tutti che il loro sacrificio non è servito né a fermare altre guerre né a rendere il mondo più sicuro, più giusto o refrattario ai conflitti.

Nessuna propaganda potrà mai lenire per davvero lo strazio delle madri e delle famiglie e sarà stato inutile anche questo, se non avrà fatto germogliare e maturare in noi degli anticorpi che la guerra la rigettino per sempre e senza eccezione alcuna.

Novi Matajur, 2/9/2010